INCONTRO BIOREGIONALE 2024

il 31 maggio e 1, 2 giugno 2024
Presso Podere Amerigo Gricigliana
Val Bisanzio Appennino Toscano

di seguito RESOCONTO E IMMAGINI dell’incontro

Note dal Cerchio d’apertura/Presentazioni
a cura di Odilio Madini

Giuseppe (contadino nella valle del Po), apre con una frase di Peter Berg: “Il bioregionalismo è sia un terreno geografico che della consapevolezza”. La terra è viva e noi siamo parte di essa, Come essere parte del tutto che ci circonda? Cominciamo da
noi stessi e dal luogo dove viviamo. Prima acquisiamo la consapevolezza e poi rivolgiamoci al lato geografico.
Luca, sono nato in una grande città (Milano) poi, 15 anni fa mi sono sposato nella valle del Falterona, tra la provincia di Firenze
e Forlì. Ho iniziato a fare libri di apicoltura con una piccola casa editrice (Montaonda). La transizione ecologica conclamata da
opinione pubblica e politica è un inganno. L’armonia tanto ventilata è difficile da perseguire con queste nuove tecnologie.
Odilio, sono di San Benedetto Po, Bacino idrografico del grande fiume. Sono reduce da un passato ecologista civico-verde per
la questione nucleare che aveva coinvolto il territorio mantovano, tra cui San Benedetto Po, per l’ipotesi di insediamento negli
anni ottanta di un mostro energetico.
Cosetta, nacqui a Bari per poi approdare a Palombara Sabina. Faccio la logopedista e mi occupo di bambini da 40 anni.
Lucia, di Jersi.
Davide Aghetoni, sto cercando di capire quello che mi capita attorno. Vicino a me ho il problema delle pale eoliche.
Davide Fratus (Bg), ho trovato molta sintonia con il posto dove sono nato. Ho rimpianto per mio nonno.
Etain, non basta fare le cose, bisogna usare le parole per comunicare e trasmettere quello che fai e come vivi. Adattarsi alle
situazioni che ci accadono (ridurre i lavori nell’orto se fisicamente non ce la fai).
Jacqueline, ho scoperto il bioregionalismo da Giuseppe. Ho sentito la necessità di abitare vicino ad un luogo dove ci si possa
spostare a piedi.
Giuseppe Cervone, di Palombara Sabina.
Noa, nata in Israele abito ad Assisi da 15 anni. ho scoperto la vita in campagna. Vicino alla terra mi sento parte del posto. Mi
meraviglio ogni giorno e mi accontento del poco, che per me è tantissimo. Mi sento di coinvolgere anche altri in questa
direzione.
Irene (Bg), nata a metà valle non demonizzo la città. Sono figlia unica, ma cresciuta in una famiglia allargata, come in
un villaggio che cresce un bambino. Vivo con Davide da 3 anni in una casa comunitaria (8 persone). Da noi passano molte
persone. Sono qui perché ho conosciuto Giampi e Sara che mi hanno ‘stremato’ parlando di bioregionalismo.
Flavio, sto a Marsciano (Pg). Mi è sempre piaciuta la natura. Mi sono licenziato dalla fabbrica. Sto facendo il giro nell’Italia
centrale per gli eco-villaggi. Il bioregionalismo mi piace.
Vered, nata in Israele. Soffro molto pensando a quello che sta accadendo. Sto con Marino. Con i bimbi abbiamo pensato alla
scuola famigliare ma non è stata realizzata. Insegno arte a scuola. Ora abitiamo in un piccolo paese in Val Rufina (prov. di Fi).
Marino, marito di Vered. Mi interessava la scuola parentale.
Tsuf, nato in Israele, cresciuto in Nigeria, ho quasi 24 anni. Abito vicino ad Assisi in campagna (figlio di Noa). Sono cresciuto in
modo quasi totalmente diverso dai miei coetanei. Vorrei trovare coetanei per trasmettere questo mio stile di vita. Loro non sono
‘predisposti’, vogliono solo fare i ‘turisti’. Sto cercando di capire. Stiamo cercando di riportare le vecchie usanze in campagna.
Angelica, è la terza volta che partecipo all’incontro. Sto su un cucuzzolo da sola con Luca. Ho incontrato altri abitanti tra cui 2
persone che vogliono venire nel nostro territorio a fare i feudatari. Il 15 giugno con Emiliano faremo una festa
dell’autoproduzione e del libero scambio.
Nuria (Bo), nata da madre sudanese. Ho molti contatti con gente contadina. La mia vita è continuata come cittadina resistente,
che è approdata assieme ai GAS bolognesi in una Coop (La Camilla). Siamo fieri del progetto “Pastore” che ha evitato lo sfratto
dal podere. Sto cercando con la mia famiglia un posto sulle colline bolognesi.
Bodgan (Bg), il mio colore preferito è il verde. Non voglio rigettare la tecnologia perché è un prodotto dell’uomo. Basta che
l’uomo sia consapevole di non recare danno. Comodità e facilità portano alienazione.
Emiliano (Valle del Falterona), sono un 50enne. Assieme a Sabrina abbiamo iniziato alla Roveta (Foresta di Firenze) per poi
spostarci qui in valle a piantare alberi e, penso, che qui moriremo. Facciamo agricoltura contadina e anche teatro contadino
libertario. Ringrazio l’esperienza del pensiero bioregionale perché rafforza le nostre radici.
Giampietro, abito a Vallogna (Bg). Dopo tanto cercare sono felice di essere lì. Ho la sicurezza lavorativa (insegno religione) per
cui posso ‘giocare’ a fare il contadino. Partecipo al MISMA, associazione di castanicoltori del posto.

Emanuele (Colli Euganei), da 1 anno viviamo (con Arianna) in questo posto dove non si suda di notte e vorremmo trovare un
po’ di terra. A 20 minuti da casa ho trovato un’attività iniziata come volontariato (raccolta di verdure) e, da poco, mi pagano
anche.
Arianna, adoro il posto dove siamo e i vicini che abbiamo. L’idea che ho è di rendermi autosufficiente nel lungo termine. Cerco
di trovare una mediazione con il lavoro che faccio (medico di base). voglio curare le persone.
Alessio, sono amico di amici in Molise.
Felice (Marche), se noi avessimo usato le ns. capacità per condividere, il mondo sarebbe diverso. Il nostro “Troppo Fare” porta
via la vita. Sono radicale. Mi sono allontanato totalmente dalla realtà. Per questo mondo non c’è la giusta consapevolezza. La
consapevolezza non te la posso trasmettere. È qualcosa che cresce col tempo, come il seme buttato nella terra. la nostra
responsabilità è quella solo di…..seminare. non possiamo pensare solo a raccogliere. Forse il raccolto sarà tra 5 generazioni.
Io, che faccio? Semino piante. Semino sogni. Il mondo cerca l’euforia, ma quello che conta è la gioia.

Stralci dai temi dell’incontro
a cura di Davide Fratus
dal tema, La rivoluzione delle vecchie maniere

Etain, Tanti italiani ancora si alzano la mattina e conducono una vita bioregionale. Stanno nel loro luogo, lo conoscono profondamente. Conoscono i loro parenti, portano avanti una serie di pratiche anche millenarie. Viviamo in un posto molto bioregionale. D’altra parte però sono costantemente bombardati dai media, da un senso comune sempre più affermato che li accusa di campanilismo o provincialismo. “Come non sei mai andato a Parigi?!” Questi messaggi spesso sono molto subdoli. Allora come si fa a difendere le persone inconsciamente bioregionali da questo bombardamento della modernità che ci vuole uniformare, far comprare? Come possiamo far sì che queste persone si sentano orgogliosi invece di sentirsi da meno?
Giuseppe, Penso a chi non ha mai rinunciato ai modi antichi dal fare, in agricoltura, nell’artigianato, nell’insegnamento, nella
preparazione del cibo, come pure nei rapporti interpersonali, non per mero romanticismo ma semplicemente perché sono gesti
che fanno parte di un immaginario consolidato di conoscenze specifiche e di interazione con gli elementi naturali locali che
hanno assicurato per millenni un giusto interscambio tra cultura e natura, tra selvatico e coltivato, tra nuovo e antico. Le vecchie
maniere hanno una marcia in più perché sono meno costose, meno complicate, fanno risparmiare tempo, e spesso sono anche
più eleganti.
Giampietro, Vicino al tema delle vecchie maniere c’è la questione della tecnica. Quanto invasiva è la tecnica se permane il tuo
essere attivo, se tu ci sei in quello strumento? Mi viene in mente un caro amico che mi ha insegnato a potare. È anziano e
l’ultima volta che è venuto da me aveva le forbici elettriche per aiutarsi nel lavoro. Quelle forbici elettriche non tolgono nulla alla
sua competenza, esperienza, capacità, a quel legame con la natura, con la realtà. Quel legame è garantito dalla tua
responsabilità di agire in relazione ai tuoi reali bisogni, ai tuoi limiti e al garantire la tutela del luogo che abiti. Uso questo
strumento, ma non gli permetto di togliermi consapevolezza, di togliermi la capacità di leggere quella pianta di ringraziarla se
l’abbatto o di sapere come usare la sua legna.
Luca, Porto la storia di un gruppo di ecologisti contadini francesi che da vent’anni cerca di sviluppare un’agricoltura in cui la
macchina non sia dominante, ma uno strumento. Stiamo vivendo una sfida molto importante nell’agricoltura. Si è affermata
quella che noi chiamiamo Agroindustria: un’applicazione all’agricoltura di quelli che sono invece le modalità della nuova
industria tecnologica. L’uso di macchine molto elaborate, computerizzate, nemmeno più vendute ma date in leasing, i terzisti, le
sementi geneticamente modificate, le colture estensive che riducono la terra in polvere. Questi francesi girano la Francia
riparando le macchine vecchie, che possono anche funzionare a benzina o Diesel, ma devono essere macchine che si possono
riparare o modificare. Loro riparano e insegnano a riparare: svincolarsi dai bisogni generati da una macchina, conoscerla e
saperla riparare diventa una parte fondante della nostra consapevolezza, e del mantenimento delle nostre conoscenze.
Cosetta, Voglio approcciarmi al tema portando un differente punto di vista: quello della dipendenza, dell’autosufficienza e della
sostituzione. Lo strumento rischia di andare a sostituire in maniera significativa le tue funzionalità, generando così una
dipendenza. Lavoro con dei giovani e temo stiano perdendo l’autonomia. La spinta alla comodità e alla facilità, ma non alla
semplicità, genera una importante dinamica di sostituzione anche in relazione a capacità basilari. È un sistema autodistruttivo.
Le vecchie maniere, la manualità, aiutano in qualche modo a mantenere vive le funzioni esecutive complesse, ovvero la
nostra capacità mentale e fisica di capire un bisogno/problema, attivandoci e trovare soluzioni operative. Affrontare un bisogno
senza l’ausilio di strumenti tecnologici, ci permette di misurarci con i limiti della nostra natura umana. Sperimentare un limite, il
timore di un insuccesso e in senso lato della morte sono lezioni da cui la modernità per certi versi ci protegge, privandoci
l’esperienza e generando dipendenze molto impattanti.
Il bambino osserva l’adulto, capisce e impara, mette da parte. Non sa di imparare. Io ho imparato così molte cose che ho
messo da parte senza neanche saperlo. Non sapevo che stavo imparando e questo penso che dovrebbe ancora succedere: i
nostri bambini dovrebbero stare intorno a noi, mentre risolviamo problemi, ripariamo cose. Oggi questo passaggio di
conoscenze è raro: c’è gente che chiama l’elettricista per farsi cambiare le lampadine. Abbiamo perso molte capacità.

dal tema, Spiritualità e bioregionalismo

Bogdan, Porto questa riflessione per introdurre il mio tema. Comincerei, se me lo permettete, portando la testimonianza di
quella che è la mia Fede. Tendo a dare sempre un taglio molto scientifico alle cose. Ne ho bisogno, funziono così. Parto dal
presupposto che noi siamo formati da un’infinità di atomi. Gli atomi sono specie chimiche che in determinate interazioni, in determinati numeri, danno luogo a determinati fenomeni, determinate situazioni. Noi stessi, siamo costituiti da atomi, siamo
esseri in eterno mutamento. Le cellule che ci costituiscono ora in questo preciso istante, non sono più le cellule che noi
abbiamo ora, che è un già altro istante successivo. Nessuna cellula attuale è tra quelle che avevamo quando siamo nati, forse
ad esclusione dei neuroni. E non sono neanche quelle che ci saranno in me fra 20 anni. Eppure noi in qualche modo
manteniamo la nostra individualità. C’è qualcosa che permane in questo mutamento continuo. Qualcuno la chiama coscienza.
Qualcuno spirito, qualcuno anima. Ma quest’anima, dove sta? Deve esserci quel qualcosa che mi rende ciò che sono, diverso
da tutti gli altri. Gli atomi di cui siamo composti sono simili tra tutti noi, e se siamo come siamo e perché c’è una base genetica
che dice che dobbiamo avere determinati presupposti per poter esistere proprio a livello sensibile. Quest’anima è ciò che dà il
soffio di individualità, questo ammasso di atomi di cui sono composto. Dovrei allora supporre che questi atomi abbiano una loro
individualità propria che poi, unendosi a me, abbiano forse un altro tipo di individualità? Se io ho un’anima posso presumere che anche animali ne abbiano una, che le piante abbiano un’anima e a quel punto estendere ancora di più la cosa al pianeta intero?
La montagna ha uno spirito suo? Oppure il fatto che sia connessa a tutta la crosta terrestre la rende un brufolo della terra? Non
riesco a trovare una risposta.
Etain, Non avrai una risposta. La mancanza di etica che ho visto lavorando a Roma nell’industria farmaceutica mi ha spinta
negli anni ’70 a cercare un pezzetto di terra. Ho imparato piano piano dai contadini del posto a sopravvivere nell’Appennino
centrale. Dopo un po’ di anni di prova di cosa vuol dire vivere in quel modo, abbiamo conosciuto il bioregionalismo, che ci ha
aiutato a capire che facciamo parte della rete della vita più ampia del bacino fluviale del Chiascio: la vegetazione, gli animali, i
vicini umani.
I popoli indigeni ci mostrano come il mondo naturale sia un’entità primaria, è quello che ci contiene e che ci dà da vivere. È
una vasta soggettività aperta al dialogo: è nostro compito capire come funziona e allinearci ad essa. Se riesci a sperimentare
questo dialogo con il cosmo, ti si rivelerà l’altissimo ordine che sta dietro al mondo naturale.
Felice, Personalmente ho grande difficoltà a parlare di temi spirituali. Posso facilmente accettare la visione spirituale di
chiunque, anche di gente anche molto diversa da me: quella è la loro visione soggettiva. Quello che poi ci serve concretamente
nella nostra vita è il rispetto di norme che io ritengo universali, come il non fare del male agli altri. Questo include ovviamente
anche gli altri che non sono esseri umani, cioè piante e animali. Ognuno deve poi vedersela da sé, ognuno deve rispondere per
sé, in base alla propria coscienza. Quella è il nostro giudice, la nostra coscienza.
Cosetta, L’osservazione del fatto di essere atomi, e che l’universo è formato da atomi è stato in qualche modo il punto di inizio
su cui ho cominciato a tessere la mia visione spirituale: il corpo umano, il mio corpo, è della stessa materia delle stelle.
Quello che io ho sempre sentito molto forte, è un senso di forte appartenenza alla natura. Perciò la considerazione di queste
particelle mi ha sempre dato un senso di connessione per cui da piccoletta cercavo di parlare alle galline e di ascoltare se mi
rispondevano. Da piccola e da grande ho utilizzato le favole, le leggende. Sono diventate una grossa parte di quello che sono e
di quello che credo. Favole e leggende sono la prova, l’evidenza di un mondo magico, un mondo parlante.
Arianna, Per il lavoro che faccio ho assistito spesso a delle nascite a delle morti. All’inizio è stato molto traumatico, poi con il
tempo ho sentito un’energia bellissima anche nel momento della morte. Quando mi sono morti degli alberi, o quando ho
assistito all’abbattimento di alberi mi è capitato di percepire come se un qualcosa di sacro, di primordiale, come se cadesse un
pezzo di me. Mi è venuto anche in mente che nonostante io non abbia figli e probabilmente non ne avrò, sento di essere stata
mamma. Sento la maternità in me. Io credo che in qualche modo tutti noi attingiamo a dei saperi che vengono dal passato, non
so se li abbiamo vissuti o se qualcun altro li ha vissuti, ma noi li facciamo nostri. Questo mi porta sempre di più a sentirmi
connessa con il tutto: più ci sto attenta e più lo sento.
Giampietro, Quando ho incontrato Etain per la prima volta stava tagliando le cipolle e mi chiese che lavoro facessi. Gli dissi
che facevo l’insegnante di religione, al ché si ferma mi guarda e mi chiede quanto ti fermi? due giorni dico. Peccato dice, e si
rimette a tagliare le cipolle. Se ti fossi fermato di più, ti avrei fatto diventare pagano. C’è riuscita comunque. Perché grazie a
all’incontro con lei e poi con gli altri ho capito quanto era bella questa cosa del recuperare il legame forte con le cose.
Ciò che mi aiuta è continuare a mettermi in gioco, a pormi domande, ad affidarmi a quello che mi sembra vero e che qui
abbiamo almeno un po’ dimostrato, ma nella consapevolezza che comunque è sempre niente. Questo continuo gioco tra il
credere e il non credere alla fine è vivere. Vivere è un mistero dove mistero non vuol dire che non sai niente. L’amore è un
mistero, lo conosciamo ma mai abbastanza da poterlo afferrare, e forse la cosa più bella è accettarlo per il mistero che è.